Dopo alcuni giorni dalla festa del lavoro, dopo la sbronza post concertone del primo maggio, anche noi momiziani vogliamo dire la nostra su questa giornata a partire da una riflessione sul significato della parola ‘lavoro’. Vogliamo fare un piccolo “gioco di parole” per capire che cosa era il lavoro e che cosa non è più.  Da sempre il concetto di lavoro ha significato qualcosa di faticoso e vitale al tempo stesso.

Nei dialetti del Sud-Italia si usa il verbo travagliare, che rimanda alla fatica dolorosa e creativa del partorire; identico per lo spagnolo trabajo e il francese travail. Diverso ma altrettanto faticoso è il concetto del labor nei dialetti del Nord-Italia. Gli inglesi più a Nord “workano”, faticano cioè con uno strumento (da cui il tedesco Werkzeug per indicare lo strumento da lavoro). Non così semplice è la situazione in Germania; perché se dalle parti di Basilea il lavoro è Schaffen e rimanda al creare, nella zona di Norimberga il lavoro è rigorosamente Arbeit, concetto severissimo che ci spedisce nel cuore della fredda Russia. Questo perché il suffisso di Arbeit (ARBT) è lo stesso per il russo RAB, da cui ha origine la parola rabynya, che significa schiavo, e il verbo lavorare “rabota”. Così tanto a Norimberga quanto in Russia il lavoro è quasi cosa per robot.

E oggi? Le grandi trasformazioni tecnologiche ci consentono di liberare forza lavoro ottenendo guadagni di tempo come mai prima nella storia. La maggior parte dei lavori degradanti può esser svolta da macchine, che al tempo stesso producono ricchezza da distribuire egualmente in tutta la società.

Eppure diversi mesi fa, la moglie di un operaio ILVA, intervistata in merito alle polemiche sull’acciaieria, ha detto che preferirebbe morire di tumore che non di fame. Le persone “impiegate” in Amazon cominciano a denunciare le condizioni disumane cui sono costrette, sino al limite estremo di non poter andare in bagno per mantenere alto il livello di produzione. Certo situazione non diversa per tutti gli “impiegati” di Uber, Foodora, Deliveroo: lavoratori e lavoratrici costretti a guidare o pedalare per chilometri per consegne sottopagate; controllati dall’occhio virtuale di una App che licenzia chi è stanco e offre bonus a chi non sciopera. 

Ma allora cosa non funziona? Perché il progresso tecnico ci rende sempre più schiavi invece di liberarci? Non si crederà mica di risolvere ogni male bloccando la tecnica, congenita con l’uomo?

Fin dai suoi esordi, con la rivoluzione industriale, il capitalismo separa l’aspetto vitale del lavoro inteso come attività (Arendt) da quello produttivo. Generando plusvalore e profitto da parte di chi detiene i mezzi di produzione ed alienazione per lavoratori e lavoratrici (Marx).

Va rifondata una nuova etica del lavoro, a partire da un equo processo di redistribuzione delle ricchezze. Siamo giunti nella paradossale condizione di poterci liberare dall’idea del “lavoro” come unica via faticosa per la realizzazione umana, ma d’altra parte siamo piegati a condizioni lavorative dis-umane. In una delle sue ultime conferenze lo scienziato S. Hawking, scomparso di recente, diceva: ”Se le macchine producono tutto ciò di cui abbiamo bisogno, il risultato dipende da come le cose sono distribuite. Se la ricchezza prodotta dalle macchine sarà distribuita, tutti potranno vivere una vita agiata. Se i proprietari delle macchine premeranno con successo contro la distribuzione della ricchezza, allora molti saranno ridotti alla povertà”.

Enrico Comes

Vai alla barra degli strumenti