Dopo anni passati a lottare contro l’Expo, ci ritroviamo con due biglietti di ingresso, un regalo inatteso. Consideriamo il gesto affettuoso, cediamo alla contraddizione e andiamo, per renderci conto di persona e confermare oppure cambiare idea su quello che pensavamo di questo evento.

Paghiamo i cinque euro per i mezzi pubblici (due volte, perché sbagliamo treno) arriviamo al piazzale antistante, superiamo i blocchi del metal detector. Già mezzi esausti, eccoci infine dentro all’Esposizione universale del 2015. Ci tuffiamo senza esitare nel fiume di persone, come salmoni che risalgono la corrente. Solo che loro, i salmoni, sguazzano, noi siamo invece una moltitudine di corpi concentrata in uno spazio troppo stretto per sentirsi a proprio agio. Tutti scattano foto e anche noi ci diamo da fare.

Questa fiumana non è che l’inizio. All’interno del sito, la concentrazione di carne umana per metrocubo è ancora più alta. E’ come stare dentro a un vagone della metropolitana all’ora di punta, solo che qui tutti cercano di andare in qualche direzione.

Ci troviamo dentro un grande quadrilatero percorso in longitudine da un vialone centrale, chiamato pomposamente “il decumano”. Per un attimo pensiamo ai Champs Elisee. Solo che qui la via principale – il decumano – è costeggiata da costruzioni che imitano i diversi stili nazionali. L’accozzaglia di finto su finto ci impressiona per lo stridore estetico. Una cacofonia di forme. Lo sguardo rimbalza da un padiglione modello astronave all’imitazione di un palazzo mediorientale, da un tappeto di erba inglese ad un manto di placche lucide e rosse simil-drago.

Cubi e sfere, linee e angoli, impattano uno sull’altro senza armonia, sia attorno al decumano che nelle periferie del quadrilatero, dove laghetti putrescenti ospitano alghe e altre specie vegetali. Cemento, ferro e asfalto la fanno da padroni. Visti da fuori gli stand sembrano enormi, ma all’interno i più si rivelano essere cubi asfittici dove la fiumana si infiltra a rigoletti. Al centro del decumano, sono installati baldacchini raffiguranti cibo … la verdura, la frutta, la carne, il pesce … tutti di plastica! Belli, colorati! Wow!

L’elemento più evidente sono … le file. Lunghe, lunghissime, che si confondono con la moltitudine in movimento. Qui e là, tra le spire dei serpentoni kilometrici di expo-visitatori in fila, prende vita qualche evento musicale e danzereccio. I musicisti ce la mettono tutta e qualcuna è davvero brava. L’ambiente però non è quello adatto: note e ritmi fanno eco, rintronano.

expo et circensesSi mangia ovunque. L’odore di cibo è pervasivo, un misto di arrosti, spezie, fritture. Molti sbocconcellano panini portati da casa. Ad ogni angolo la visuale è occupata da bocche che addentano, triturano e
succhiano. Piatti di plastica e resti di cibo avanzato nei cestini della spazzatura, dove a dispetto della raccolta differenziata si trova dentro di tutto.

Le opere d’arte fatte arrivare al Padiglione Italia sono un specchietto per le allodole, slegato dal contesto. E in più sottraggono possibili visitatori ai musei. L’Arcimboldo sarebbe l’unico a tema, ma pare che non ci sia (a meno di contare l’imitazione che ne fa la Disney per il proprio stand).

Ed eccoci al famoso “albero della vita“. Ohhh! Bello, se fosse illuminato da semplici fari esterni che creassero giochi di luce. Invece la struttura di legno e acciaio, molto piacevole in sé, è percorsa da lampadine colorate intermittenti in stile albero di natale, fanali, ventagli e fiori finti roteanti. Molto eco, molto bio! Il trionfo del kitch. Gli spruzzi che si sollevano dalla fontana circostante non sono sincronizzati con la musica che accompagna le “performance” dell’albero. Troppe spese per pagare tecnici specializzati, per non parlare delle litanie degli sponsor fra una musica e l’altra.

Proseguiamo, rinunciando ai padiglioni superstar, poiché ci sembra assurdo fare file da 4 a 8 ore di fila per cose dejavu. Eh sì! L’offerta, dentro ai padoglioni, consiste perlopiù in souvenir per turisti, immagini che si trovano in rete o in televisione, e cibo. Tanto cibo, per soddisfare la fame della moltitudine presente. Le multinazionali sono incorporate in modo incisivo nella rappresentazione nazional-globale del businness. Bene.

Arriviamo all’estremità del decumano dopo aver camminato per diverse ore, pervasi da una senso di oppressione e disagio, storditi dalla folla, dal rumore e dall’odore di cucina. In questa zona periferica, quasi un’appendice di Expo, la dimensione torna ad essere umana. Troviamo ristoro nel padiglione di Federparchi, dove possiamo riposare seduti mentre in alto scorrono immagini di natura, dove il rapporto carne/metrocubo è ai livelli di sanità mentale e dove finalmente non c’è odore di cibo. Il morale si solleva ulteriormente quando entriamo nel padiglione di Slow food, un piccolo stand di legno, circondato da piante vive e fresche, ambiente semplice, rilassato. All’interno, i contenuti sono proposti in modo intelligente, il più vicino a quello che dovrebbe essere lo spirito di questa Esposizione universale: la conoscenza e la sensibilizzazione per la lotta contro la fame in modo biologico, difensivo della terra ed economico. Una piccola associazione per un grande impegno!

Ora, qualche riflessione in chiusura. Questo viaggio in Expo non ha smentito le nostre ipotesi, ma le ha rafforzate. Il quadro è anche più tragico di quello che avevamo immaginato. Da via Padova a Paolo Sarpi, da Corso Buenos Aires a via Ripamonti etc etc, il commercio globale esiste già. E quindi, a cosa è servito l’Expo? La megalomania del businness commerciale che si nasconde dietro un’idea giusta per speculare ancora una volta su di noi più o meno garantiti e sulla fame del mondo. Quando quest’evento finirà, tutto verrà smantellato e rimarrà un deserto di cemento. Chi ci ha guadagnato? Forse chi muore di fame, che sa veramente cosa vuol dire alimentarsi e non noi, masse di obesi colesterolici?

I governi sanguisughe ci obbligano a finanziare l’Expo e fanno pagare a noi l’entrata senza che ci sia un ritorno di giustizia economica ed alimentare globale. Il solito bluff ben organizzato, moderno, Expo et circenses per tutti. Stando lontano ad organizzarlo nei paesi poveri, portando strutture lavoro e piani di sviluppo sul territorio -eh già – non si guadagna. Che dire. Abbiamo percorso km di asfalto, tanti quanti quelli fatti, guarda caso, da donne e bambini (se ce la fanno) per prendere l’acqua nei loro paesi poveri, mentre noi con pance soddisfatte usufruiamo di acqua gratis dell’Expo ad ogni piè sospinto. I palestinesi pagano agli israeliani l’acqua delle proprie fonti. Un esempio di ingiustizia su un intero popolo.

Un’alimentazione eco-sostenibile e biologica globale? Siamo pessimisti. Troppe guerre, troppa miseria, troppa povertà. Per un attimo abbiamo pensato di exportarci su Marte.

Vito Dileo e Eleonora Cirant

 

Expo et circenses

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