Tutto cominciò con uno stupro di gruppo al Centro cosiddetto sociale sede della rete cosiddetta antifascista di Parma. Quattro stronzi avevano avevano violentato C., una ragazza, per tutta la notte dopo averla resa inerte con vino drogato. Avevano filmato le loro mirabolanti prodezze maschili con un cellulare e avevano diffuso i video, che presero a circolare grazie alla complicità di altri stronzi e stronze, che avevano pure la faccia di merda di definirsi “compagni”. Inizialmente C., annichilita, non aveva osato denunciare i violentatori. Dopo la diffusione del video, la gente che frequentava il posto e che la conosceva l’aveva isolata, affibbiandole un nomignolo mostruoso preso da uno degli oggetti usati per seviziarla. La verità è che incontrando i suoi occhi non potevano fare a meno di provare schifo per se stessi.

Il video penetrò in tutti gli account della rete di contatti del Centro cosiddetto sociale cosiddetto antifascista. Arrivò al cuore, alla pancia, al cervello, all’anima per chi ci crede. Nel vederlo alcune ragazze vomitarono. Certe rimasero con il fiato ghiacciato nella gola e gli occhi annebbiati di orrore. Altre sfogarono con calci e pugni la rabbia accecante. Un ragazzo si sentì il pisello svenire di vergogna, per l’umiliazione di appartenere al sesso maschile non fu più in grado di avere l’erezione, che riottenne solo dopo una psicoterapia. Una ragazza non riuscì a scopare per settimane, perché ogni volta che veniva toccata da un uomo erano le scene del video a propagarsi nella sua mente e nelle sue viscere, paralizzando le anche in un blocco di ferro.

Passò qualche settimana. Il tempo al video di propagarsi, allo shock di rientrare. Rimase la rabbia e una lucida determinazione. Le ragazze del collettivo punk femminista si diedero appuntamento una sera al centro cosiddetto sociale cosiddetto antifascista e lo occuparono. I cosiddetti compagni presenti furono accerchiati e messi davanti al tribunale delle donne. Provarono a tirare fuori i pettorali e le mandibole ma della baldanza fascista non c’era più niente, perché lo stronzo senza il branco non è nulla e un branco non esiste se non contro uno. Quelle erano furibonde, incontenibili, in tante perché insieme. Il branco era ridotto a una manciata di stronzi impauriti. Dell’adrenalina da combattimento che si scatena a contatto con i celerini, nessuna traccia. Di fronte a sé i cosiddetti compagni cosiddetti rivoluzionari non avevano soldati armati di bastone e scudo, ma un muro di femmine inferocite, gridanti, con le vene grosse sul collo e le lingue taglienti, occhi pieni di veleno e unghie che si ficcavano nella carne.

C. era con loro. Erano andate a prendersela a casa, dove stava rannicchiata sotto una coperta di musica battente. L’avevano abbracciata, baciata, coccolata. Avevano pianto insieme a lei. Avevano detto: “adesso andiamo al Centro cosiddetto sociale cosiddetto antifascista, prendiamo i cosiddetti compagni e li appendiamo al muro per i coglioni. Vediamo come si divertono”. Erano furiose, lo avrebbero fatto. Avrebbero voluto scaricare la loro rabbia a colpi di mazze di ferro su quelle teste di falsi compagni, con ancora più rabbia perché quelli osavano definirsi tali.

Poi erano arrivate là, tutte insieme, e avevano deciso di metterli a processo. Il cerchio delle donne si strinse intorno a quelli che stavano lì, non solo i violentatori ma anche gli altri stronzi che il video se l’erano guardato e magari si erano anche fatti le pippe, più altri che, semplicemente, non avevano fatto o detto niente per opporsi. Altre donne che erano in sede se ne tirarono fuori, si piazzarono ai lati e rimasero a guardare, incerte sul da farsi.

Il processo cominciò.

Le donne del cerchio gridavano le loro accuse. C’erano i fatti di quella notte orribile, ma c’erano anche quelli di tutti i giorni prima e di tutti i giorni dopo. Fatti piccoli e fatti grandi. Ognuna di loro aveva un’accusa da rivolgere o una richiesta di spiegazioni. Ora che li mettevano tutti in fila, quei fatti, potevano vederli meglio, dare loro un nome, metterli al mondo dentro una narrazione. Scandagliarono ogni segmento della vita trascorsa insieme ai cosiddetti compagni nel centro cosiddetto antifascista per ciascuna delle cosiddette lotte. Misero a fuoco ogni gesto, ogni parola, ogni processo verbale e non verbale.

Quelli dentro al cerchio non potevano uscire, le donne brandivano armi ed erano furiose, se qualcuno ci provava diventavano violente, mordevano, ficcavano le unghie nella carne, le dita negli occhi, tiravano calci nelle palle. Gli toccava rispondere. Quelli urlarono, ringhiarono, poi balbettarono, poi non seppero più cosa dire. Si ammosciarono come fantocci, privi di senso. Il processo andò avanti tre giorni, senza interruzioni. All’alba del quarto decisero che il processo era concluso. I colpevoli dello stupro furono condannati all’isolamento sociale sotto il marchio dell’infamia. Non ce n’era uno, dei presenti, che ne uscisse con la fedina morale pulita. Per alcuni gagliardi maschietti fu una vera rivelazione trovarsi allo specchio di una virilità malconcia. L’esperienza del centro cosiddetto antifascista fu dichiarata chiusa la notta stessa dello stupro. I locali furono sprangati e le chiavi buttate. Il cerchio si sciolse e ognuna andò a casa sua a riposare dopo la lotta estenuante che era appena avvenuta. C. andò dai carabinieri e denunciò i suoi stupratori.

Uno di loro si era già suicidato buttandosi sotto la metropolitana. Un altro chiese di essere inserito in un programma di recupero per uomini maltrattanti. Il terzo tentò la fuga ma venne bloccato in tempo dagli “sbirri”. Fu incarcerato per qualche anno e poi se ne andò in America latina per fare carriera nel mercato della droga e rimase ucciso negli scontri a fuoco tra bande. Un quarto, che non era indagato, andò ad arruolarsi nell’Isis per poter violentare e sfogare la sua misoginia con chi gli pareva a lui, senza rotture di coglioni. Venne sgozzato da un confratello nel corso di una disputa.

C. e le altre andarono avanti. La forza del cerchio non si disperse, anche se le strade si divisero. Qualche anno dopo alcune tornarono al centro cosiddetto sociale cosiddetto antifascista e fecero saltare le porte. Diedero aria, fecero pulizia e lo riabilitarono. Lo riempirono delle loro idee e della loro creatività. Nascevano dei progetti, si facevano delle cose. C’erano anche i maschi. Tutti quanti insieme avevano preso l’abitudine di sedersi in cerchio per rovistarsi dentro in cerca di pattumiera fascista. Ogni volta ne trovavano briciole. Ma erano sempre più piccole.

Eleonora Cirant

Nota. Lo stupro alla rete cosiddetta antifascista di Parma è accaduto realmente. Il resto di questo racconto è di fantasia, mentre è reale la presa di posizione del collettivo Romantic Punx.

Immagine: “Giuditta e Oloferne”, di Artemisia Gentileschi.

 

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