Sono una donna, ho trentasette anni e un amore che dura da anni e non accenna a spegnersi. Spesso mi trovo a dover dare spiegazioni del fatto che non abbiamo figli o figlie. “A quando i bambini?” La domanda è d’obbligo, lo comprendo. Non mi disturba. Capisco meno le reazioni che puntualmente, salvo rari casi, accompagnano la mia spiegazione.

Sarebbe molto semplice poter dire: non ho desiderio di maternità. Questo chiude la bocca a tutti. Limpido, lineare, ma non è così. Io quel desiderio ce l’avrei anche. Pure l’infertilità dell’una o dell’altro sarebbe una spiegazione rapida e quasi indolore. Magari ti guarderebbero con compatimento, ma almeno te la saresti cavata: rientri nello schema. So di qualcuna nelle mie stesse condizioni che per tagliare la testa al toro ha optato per un “sono lesbica”, ma questo non fa onore alla realtà, visto che molte donne lesbiche sono anche madri.

Le motivazioni che ci spingono a non avere figli sono invece strettamente economiche, come tante migliaia di coppie italiane. Se il mio compagno perdesse il lavoro, ne troverebbe difficilmente un altro data l’età e il grado di specializzazione. Che sia sempre più difficile sbarcare il lunario è cosa nota, lavoro è ormai sinonimo di precarietà ed insieme il problema politico più sentito soprattutto dai giovani.

Ma quando si parla di maternità, le cose sembrano cambiare. E’ impossibile che il motivo sia così banale! Dovranno esserci senz’altro cause più profonde. E che spreco, non fare figli per un motivo tanto razionale come il rischio di scendere sotto la soglia della povertà! Insomma, il desiderio è il desiderio, se c’è c’è e va realizzato, costi quel che costi. Del resto le nostre nonne (le mamme già meno) non partorivano forse in condizioni ben peggiori? Sembra che un figlio ripaghi della miseria e che il desiderio di maternità – soprattutto per una donna – debba prevalere ad ogni costo.

Per molto tempo ho tenuta aperta questa ipotesi: potrebbe esserci qualche motivo recondito per cui tutto sommato figli anche no, non a queste condizioni. Spesso gli altri vedono da fuori cose di noi che noi stesse, stando dentro, non possiamo vedere. Così mi sono messa in discussione. Ho rastrellato il conscio e l’inconscio con sincera attenzione e impegno. Con l’analisi, con il counselling, con la scrittura, scendendo armata di torcia tra i fantasmi e le ombre notturne. Ho sceso scalini simbolici per andare nei sotterranei, e guardato come al cinema la “storia” raccontata dai sogni del mio rapporto con la cura, con il prendersi cura. Ho fatto l’anatomia del rapporto coi miei genitori e con il mio compagno, girandoli da ogni parte per vederli meglio.

Tutto questo è stato molto importante, mi è servito a conoscermi, a sciogliere nodi, vedere schemi, smussare angoli. Provare ad amarmi per quello che sono: è stato forse questo il premio di questa scalata, il tesoro nascosto nelle cantine umide e paurose.

E dopo averci tanto “lavorato” su, ho visto quel che tutte le altre donne vedono quando stanno molto sinceramente di fronte al tema della maternità: la sua ambivalenza.

Perciò ora credetemi, amiche e sconosciute, quando affermo che si può rinunciare ad avere figli per motivi economici ed essere comunque felici.

Che soddisfazione! Posso finalmente concedermi il lusso di piangere e gioire. Posso accogliere il mio desiderio e il suo limite, e piangere insieme al mio compagno perché la nostra volontà di essere genitori è ostacolata. E posso gioire perché la mancanza di bambini non mi tarpa le ali. Posso volare, perché so chi sono.

Ci sono donne che possono permettersi l’una e l’altra: la stanza tutta per sé, e insieme la maternità. Che devo fare se non sono tra quelle? Del resto non rinuncerei mai alla prima per la seconda.

Posso gioire perché so godere di ciò che ho e non mi struggo per quello che non ho. Perché la vita mi ha donato la consapevolezza che per ogni porta che si chiude, un’altra se ne apre. Un’arte, quella di vedere ciò che si apre quando qualcosa si chiude, che coltivo con cura. Un sapere raro e prezioso, in tempi in cui il desiderio arde di una febbre malata, carburato da un’ipertrofia dell’ego che tutto deve poter realizzare e che, mangiando continuamente il proprio limite, non trova mai soddisfazione.

Posso gioire, perché portatrice di una sana “etica della responsabilità”. Gioisco per essere una donna del mio tempo, perché vivo la maternità non più come destino, ma come frutto di una scelta. In tante, su questo passaggio, storcono il naso: se ha alla base motivazione economica, quella di non avere figli non può essere una scelta “davvero libera”, e sembra piuttosto frutto di un dominio della razionalità a danno dell’istinto. Come se ogni scelta non fosse sempre spuria, sempre condizionata e sempre al bordo fra conscio e inconscio, fra ragione e sentimento, fra possibilità e impossibilità, fra casualità e causalità.

Gioisco, perché la mia vita è ricca e complessa, sicché la rinuncia ad essere madre mi addolora ma non mi acceca, e perché non amputa la mia creatività, ma la espande su altri orizzonti.

Perciò, amiche care, invece di cercare di convincermi della mia presunta fallacità, gioite insieme a me. Lottiamo insieme per cambiare questa società che non ci ama per quello che siamo – l’imprevisto nella Storia – e che esclude la cura della vita proprio là dove essa è più fragile.

Eleonora Cirant, febbraio 2011

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