Il 2017 è ormai terminato e con esso anche la questione IUS SOLI sembra essere archiviata, dopo mesi di sterili discussioni. Eppure numerosi giornali continuano a dedicare pagine al tema “cittadinanza“, nella speranza di mantenere viva la discussione. Tanto che recentemente l‘Espresso ha definito quella per lo IUS SOLI, “una battaglia di civiltà che non deve finire”.

Chiariamo subito la visione: che vi sia un’emergenza umanitaria sarebbe sciocco negarlo. Così come lo è pensare che questo dramma possa continuare ad accadere senza alcuna regolamentazione politica. Pertanto le perplessità non sono legate al voler rendere “italiani” individui altrimenti etichettati come “migranti”.  Il vero problema è la “cittadinanza” in sé.

Il dispositivo della cittadinanza

Siamo abituati all’esistenza di questo dispositivo, tanto da non interrogarci sulla sua origine e sul suo significato, se non in termini strettamente tecnici. Come già notava Hannah Arendt, diamo per scontato che un individuo al momento della nascita debba esser inserito in un ordinamento statuale, così da trovarsi soggetto alle leggi e al sistema politico di uno Stato. Non da ultimo, tale meccanismo è aspetto tipico degli stati moderni, detti Stati Nazionali, che fanno della “nascita” il principio utile per iscrivere gli individui al proprio interno. Ma per quanto poi ci si possa arrovellare sui criteri procedurali di iscrizione degli individui nello Stato, IUS SOLI o IUS SANGUINIS, i fenomeni di inclusione e di eslcusione dalla cittadinanza permangono.

Se la comunità politica funziona come un club

Occorre forse ragionare per altre vie: se la “comunità politica” funziona come un “club” nel quale si può essere ammessi o dal quale ci si può veder rifiutare l’accesso, “ci si deve domandare come i membri di diritto siano stati cooptati, come abbiano stabilito le regole di ammissione e come si traduca la loro partecipazione attiva nella preservazione di quelle regole” (1). Le implicazioni pratiche di questo ragionare sono evidenti; ad esempio: non ci sarebbe esclusione delle donne dalla cittadinanza o da certi diritti civili, senza la costituzione di un modello di cittadinanza che ha funzionato (continua ancor oggi) come un “club” di maschi. Lo stesso vale, mutatis mutandis, per i fenomeni di discriminazione razziale e culturale, che imprediscono ad alcuni ESSERI UMANI l’accesso alla cittadinanza, o al godimento di diritti ritenuti inalienabili.

La cittadinanza si basa su dinamiche di inclusione-esclusione

Tutto ciò basta per riconoscere quanto è la stessa “comunità politica” ad escludere. Detto in altri termini, sono sempre dei cittadini che, in quanto tali, escludono dalla cittadinanza creando dei non-cittadini; così da poter giustificare a se stessi la propria cittadinanza come un’appartenenza comune.
In forza di quanto detto, la questione resta aperta: invece di disquisire tecnicamente dei criteri della cittadinanza, occorrerebbe discutere della cittadinanza in sé. Fu detto già tempo fa “alcune persone sono nella società, senza essere della società“. La dinamica di inclusione ed esclusione continua a generare drammatiche realtà, è giunto il momento di interrogarsi seriamente sulla cittadinanza.

(1) E. Balibar, Cittadinanza, Bollati Boringhieri, 2012, p. 102

E. Comes

Image: ‘BorderEncuentro2017_Day2_IMG_1227-1’

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