Il 25 e 26 giugno, a Genova, abbiamo parlato di genere e globalizzazione per “Punto G”, una grande assemblea di due giorni, donne del nord e donne del sud, italiane e non. Questo intervento parla di corpi rivoluzionari e di corpi rivoluzionati.

Vorrei iniziare con un ricordo personale. Dieci anni fa, Punto G 2001. Avevo 27 anni, era la prima volta che partecipavo a un’assemblea femminista. Ho delle inquadrature molto vivide e precise, segno dell’impatto emotivo che ebbero quelle ore. L’arrivo, donne sedute in cerchio in uno spazio laterale. Un via vai lungo la scalinata imponente. L’incontro con una persona conosciuta, entrambe stupite di vederci lì. L’ingresso nel salone, la presenza di tante donne, mai viste tante tutte insieme. Ho ascoltato per poco quello che si diceva e poi mi sono messa a fare gli striscioni con altre donne. Seduta a terra tra pennarelli e colori, in una postura che ricorda quella del gioco, della creatività, la stessa in cui consumai il pasto offerto dalle organizzatrici. Il parlare fitto con le altre per decidere che cosa scrivere, con una complicità nata nel fare e nel raccontarsi.Il sentirsi partecipe, e qualcosa di simile alla scoperta di una terra venendo dal mare – nel senso quella esiste anche prima, ma quando la scopri esiste “per te”. Poi, il corteo. I corpi vicini nelle strade strette di Genova. I nostri striscioni esposti alla luce e agli sguardi. Le nostre voci! Non fu un corteo silenzioso quello, e tornai a Milano rauca.

Se dovessi condensare tutto questo in una parola, forse direi: erotismo. Questo irrazionale allacciarsi del corpo agli altri, che è anche un allaccio di cuori, una spinta verso. L’erotismo oltre la sua connotazione sessuale, come forza che spinge verso, in cerca. Come ciò che ci fa traboccare. Dacia Maraini ha parlato qui di un erotismo da riscoprire e reinventare, e mi colpisce che abbiamo entrambe chiamato in causa questa parola pur in un contesto diverso.

Tutto ciò che la mia volontà ha prodotto, il corpo l’ha fatto prima.

Azione, pensiero, emozione: le tre modalità dell’umano, interconnesse e reciprocamente influenti. Il corpo è il crocevia, l’interfaccia. E’ con il corpo che agiamo, ci emozioniamo, pensiamo. Il corpo è il soggetto nella sua manifestazione fisica e, soprattutto, il corpo è il soggetto nella sua relazione con gli altri.

Perciò un quando parliamo di corpo rivoluzionario parliamo di soggetto rivoluzionario nel suo pensiero, nella sua azione e nella sua emozione, e il cui corpo non può che essere, al tempo stesso, un corpo rivoluzionato.

Qual è il corpo rivoluzionario? Cioè di che tipo sono le azioni, i pensieri, le emozioni di un soggetto rivoluzionario?

Esempi eclatanti.

Rosa Parks, una donna di pelle nera che a Montgomery, il primo dicembre 1955, rifiuta di cedere il posto sull’autobus a un uomo di pelle bianca, dando così il via al “boicottaggio degli autobus”. Si trattava di lottare contro il segregazionismo, cioè contro il razzismo.

Rivoluzionario è il corpo che cambia posto.

Nell’intervento che mi ha preceduto, Lorella Zanardo ha raccontato di una giovane donna che chiedeva: “dov’è il mio posto?”

Anni Settanta, il cerchio dell’autocoscienza, il separatismo. Le donne si separano dagli uomini? Terremoto. Ancora: cambiare posto.

Arabia Saudita, una donna si filma mentre guida un auto. Il corpo di Manal Sharif non è là dove dovrebbe essere.

Solo pochi esempi, per dire che rivoluzionario è il corpo quando non è là dove è previsto che sia. Rivoluzionario è il corpo imprevisto. Il corpo che parola un altro codice rispetto a quello previsto, perché il corpo è sempre anche linguaggio. Rivoluzionario è il corpo che viola un’abitudine sociale o divieto, e con ciò mette in discussione la norma e, in certi casi, anche la legge.

La norma passa necessariamente dal corpo. Norma infatti è ciò che condiziona atteggiamenti e comportamenti – cioè espressioni corporee, e che definisce la “normalità” all’interno di una comunità.

Rivoluzionario dunque è il corpo di chi interrompe la normalità con un’azione imprevista. Ma c’è di più: rivoluzionario è quando questa interruzione innesca un conflitto.

Le azioni rivoluzionarie sono azioni consapevoli, sono fatte apposta. Lanciano una sfida. Implicano un rischio. Nascono da una motivazione costruita nel confronto con altri soggetti nella medesima condizione. Nascono per necessità, non per calcolo, né per strategia.

Il corpo rivoluzionario è quello del soggetto autocosciente, non potrebbe essere altrimenti.

Ecco perché darci e dare occasioni di consapevolezza paga, nel tempo. Anche se non sembra. Quante volte ci è sembrato di non riuscire ad incidere adeguatamente nella società, quante volte le pratiche delle nostre associazioni ci sono sembrate marginali. Eppure ho fiducia che è come gettare semini, occasioni di consapevolezza.

Per poter rompere una norma, devo averla vista. Come è accaduto per il video di Lorella, che ha avuto efficacia nello svelamento della norma.

Finché la norma è percepita come naturale, è invisibile. Ecco il grande tranello della “naturalità”, che quasi sempre maschera la “normalità”. Per l’umano non esiste la contrapposizione tra natura e cultura, perché la natura dell’essere umano è la sua cultura. Sotto la pelle di ciò che è “naturale” rischia di insediarsi l’invisibilità della norma.

La sfida non è quella dell’aderenza a una presunta natura, ma è quella del libero arbitrio. Libertà e scelta stanno sempre nel confronto con un limite, con un condizionamento interno o esterno, ed è appunto nell’interazione con il limite che si sviluppano modi diversi di agire, pensare, emozionarsi: la cultura.

Le azioni rivoluzionarie implicano autocoscienza, sono cioè sostenute da pensiero ed emozione. Sono più evidenti laddove il divieto è più stringente, e dove la norma è trascritta in legge. La dove sfidare il divieto vuol dire mettere in gioco la vita.

Ma sono possibili anche dove la normalità non implica forti restrizioni personali, come nei paesi in cui vige la Sharia, come negli interventi della prima parte della mattina.
Quali azioni potrebbero essere rivoluzionarie nel nostro paese, anno 2011? Quali sfidano la normalità? Quali innescano conflitti? Quali divieti sono posti alla nostra liberà? Quali censure? Nella nostra società liquida, complessa, quella degli individui dalle identità multiple. Post moderna, è stato detto.

La nostra è (sembra essere) una normalità sostenibile, perché non costringe i corpi – o meglio: ne costringe solo alcuni in particolari occasioni. La nostra normalità non normalizza costringengo, bensì educando ad accettare acriticamente la normalità (il che a ben vedere è una diseducazione). E’ tutto il grande tema della biopolitica.

Noi donne siamo state abituate a stare al nostro posto, lo siamo ancora. Certo, il posto che siamo educate ad occupare non coincide più con quello delle nostre nonne e bisnonne. C’è stato il Novecento, per lo mezzo, e con il Novecento uno slittamento enorme, se misurato alla condizione nostra e loro. Uno slittamento minimo, se misurato alla profondità ed estensione di abitudini sociali radicate da millenni, scritte in milioni di vite e di generazioni. E che ruolo hanno avuto e continuano ad avere le religioni in questo, lo hanno ricordato gli interventi che mi hanno preceduto. Non a caso i movimenti emancipazionisti di primo Novecento hanno avuto tra i proprio fondamenti quello della laicità, cioè la separazione fra Stato e Chiesa. Sulla religione però voglio tornare in seguito.

Ancora oggi, per una donna come per un uomo, è rivoluzionario cambiare posto, essere là dove non ci si aspetterebbe che fosse.

Le abitudini stanno cambiando, è visibile, ma ancora il corpo sociale ha delle contratture, delle zone di “non vita”, di immobilità.
Come nello yoga (ma anche nella danza, nel teatro, nello sport). Nella disciplina dello yoga cosa fai: muovi ogni singola parte del corpo portando attenzione su essa attraverso il respiro. E lo fai ogni giorno. Lo fai per modificare la memoria muscolare, cioè quelle abitudini posturali che nel tempo bloccano parti del corpo. Gobbe, torsioni, rigidità della colonna, sono tutte dovute ad abitudini posturali. Abitudini che spesso sono la traccia di una emozione reiterata che si inscrive nei muscoli, contratti in un punto e poco tonici in un altro. I muscoli si tirano dietro lo scheletro, fino a modificare la struttura.

Il corpo rivoluzionato è il corpo cui si è prestato ascolto, ed educato a cambiare le proprie abitudini. Come per le rivoluzioni sociali, per poter cambiare la norma (l’abitudine) devo prima averla vista. Così è per la la normalità del mio microcosmo interiore, con tutte le sue abitudini, alcune funzionali, altre disfunzionali. Alcune introiettate nei primi anni di vita, reazioni automatiche che non hanno più ragione di esistere. Normalità e abitudini legate ad emozioni, perché in quanto esseri umani siamo vulnerabili, bisognose e mortali.

Il corpo microcosmo che cambia abitudine è un corpo che interrompe la normalità interna e così facendo innesca un cambiamento nelle emozioni, nel pensiero, nell’azione. Il corpo rivoluzionato è quello abituato ad ospitare tutti i personaggi anche contradditori che vivono in ciascuna e ciascuno.

Il teatro insegna: l’azione si deve vedere, senza il corpo la parola è nulla.

Per questo il corpo rivoluzionato è una grande occasione. Un microcosmo rivoluzionato rischia di essere altamente rivoluzionario nel macrocosmo. Perché è il corpo di un soggetto che interrompe la normalità.

Una sera, in autobus, un uomo si avvicina a una ragazza, la tampina. Lei è impietrita, si vede che non vuole essere maleducata con lui, non sa che fare. Cambio posto, mi siedo vicino a lei, non dico nulla, pianto il mio sguardo in quello dell’uomo. Lui se ne va, tutto il corpo di lei si rilassa, riprende a respirare, mi guarda con gratitudine.

Una sera, in un pub irlandese, musica e birra, un uomo in compagnia di altri mi chiede il mio nome, parliamo, sorrido, sono affabile, lo sento appiccicoso ma non voglio essere maleducata, a un certo punto lui mi branca, mi abbraccia, io lo respingo, lui tiene un attimo prima di lasciarmi andare. Non dovrebbe scattare il pilota automatico, mi chiedo? No, ogni volta è diversa.

Per dire: quante contraddizioni abbiamo.

Una giovane donna si presenta in un ospedale e chiede di poter effettuare un aborto con il metodo farmacologico, ma si sente rispondere che lì non è possibile. Eppure le sembrava che lo fosse… ma non se la sente di “piantar rogne”. Mette in discussione le informazioni che credeva di avere raccolto, si vergogna a fare domande, lascia andare. Casi come questi emergono nei racconti delle ginecologhe e delle ragazze. Per dire: quanta strada da fare per farci rispettare.

Le ragazze provano fastidio quando sentono la parola femminismo. Questo se da un lato può irritare, dall’altro conferma che il femminismo ha toccato nel vivo. Ha toccato nella carne, nella memoria muscolare della società. Ha cercato di cambiare abitudini tanto radicate che, per reazione, il corpo metaforico della collettività si è irrigidito. Come succede ai muscoli, appunto. I muscoli non variano stabilmente in lunghezza e dimensione. Un muscolo, come ricorda in modo preciso Paola Lanzon, di per sé può solo contrarsi, ma la sua estensione dipende dagli impulsi del sistema nervoso centrale. Quando cerchiamo far fare al muscolo un movimento che il cervello non riconosce come abituale, il cervello gli manda l’impulso di contrarsi. Il dolore è il segnale di allarme del sistema nervoso, che non riconosce il movimento e con ciò impedisce la trasformazione. Ma si possono modificare le abitudini, cioè la memoria muscolare, attraverso la volontà: con l’attenzione e la consapevolezza del respiro, e con lievissimi quasi impercettibili spostamenti.

Le/i più giovani non amano la parola femminismo forse perché trattengono la memoria sociale di una contrattura, di un cambiamento tanto grande e rapido di abitudini da sembrare violento. Il loro disdegno per questa parola è il segno di una normalizzazione, forse anche del timore per il conflitto. Infatti appena una donna, anche giovanissima, acquista coscienza politica, la parola femminismo smette di darle fastidio. Forse il fastidio per questa parola contiene però anche la ricerca di uno spostamento che non crei strappi muscolari.

Anche socialmente un’azione giusta, ma forzata, rischia di creare irrigidimenti. Solo a titolo di esempio, e conscia del rischio di semplificare, richiamo la legge francese che ha vietato l’ostentazione di simboli religiosi nella scuola pubblica e che ha avuto come immediata ricaduta il divieto per le ragazze di portare il velo in classe. Sappiamo che la questione è molto dibattuta. E’ stato scritto che una delle conseguenze di questa legge è stata che alcune ragazze non hanno più potuto andare a scuola (Houzan Mahmoud contesterà questa informazione nel corso del dibattito). Non voglio discutere della legge francese, ma solo segnalare come un’azione politica volta ad innescare un cambiamento sul terreno di abitudini radicate rischia di creare irrigidimento e reazioni difensive che la stessa politica deve essere pronta a gestire.

Ci vuole fermezza e insieme flessibilità, abbandono e insieme controllo. Questa indicazione dello yoga può essere intesa come valida sia per il microcosmo che per il macrocosmo.

Gli spostamenti che modificano il macrocosmo possono essere, come per il micro, quotidiani, nel piccolo, nella sfera delle relazioni, sono quelli che possiamo e dobbiamo fare ogni giorno, come pratica politica, per cambiare le abitudini sociali. Piccoli spostamenti che scaturiscono da una scelta e da modalità di azione. Rivoluzionario è scegliere sempre che posizione occupare, mai subirla.

Piccoli spostamenti che creano conflitti sempre più spesso a livello individuale, perché questo è il tempo dell’individuo, nel bene e nel male.

Eleonora Cirant, giugno 2011

ps. Questo piccolo scritto è un punto di approdo (da cui ripartire). Acchiappo l’occasione per ringraziare le mie maestre, le mie amiche, le mie compagne di viaggio, ma anche gli uomini che, nella loro ricerca, hanno incrociato la mia. Le donne e gli uomini che mi hanno amato e che mi hanno dato fiducia.

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